Eu resolution on Russian media is a deeply wrong political decision


The European Parliament’s resolution aimed at counteracting Russian media is a deeply wrong political decision” while the fact that it draws parallel between Russia and Daesh terrorists is outrageous, former Italian Foreign Minister Franco Frattini said Friday.

According to Franco Frattini, the resolution was adopted because of the “prejudicial, negative attitude” of the members of the European Parliament towards Russia.

“I think it was not only a deeply wrong political decision, but it was also outrageous to put the word ‘Russia’ beside such words as ‘Daesh’ and ‘terrorism.’ Russia is among the countries, if not the only country, which is fighting against terrorism and Daesh,” Frattini said in an interview with the RT broadcaster.

On Wednesday, the European Parliament voted in favor of a resolution on countering Russian media outlets, such as Sputnik and RT. Out of 691 lawmakers taking part in the vote, 304 voted in favor of the resolution, 179 voted against it, and 208 abstained. Therefore, less than half of the lawmakers supported the resolution.

Russian President Vladimir Putin, commenting on the adoption of the European Parliament’s resolution on Russian media, congratulated RT and Sputnik journalists on effective work and stressed that this resolution indicated apparent degradation of the concept of democracy in the Western society. Putin also expressed hope that common sense would prevail and that there would be no actual restrictions against the Russian media.

Daesh is a jihadist group outlawed in Russia and multiple other countries.

27.11.16 | Posted in , , , , | Continua »

USA 2016 - "La batosta della Clinton farà bene agli europei" (Intervista a Libero)


 Il due volte ministro degli Esteri prevede le conseguenze del voto americano 
"Il disimpegno americano dalla Nato è un' occasione per creare una difesa comune e superare il dogma dei vincoli di bilancio. Juncker ha sbagliato”

di Marco Gorra per Libero

«La priorità è anticipare lo scappellotto di Trump». Franco Frattini il ministro degli Esteri lo ha fatto due volte, una delle quali coincisa con la transizione da un presidente americano all' altro (2008, quando la partenza tra Obama e Berlusconi «non fu felice»). Ed ha le idee chiare su quale dovrebbe essere il primo passo da compiere davanti al ciclone Trump: «Fossi io alla Farnesina, cercherei di preparare il premier a fare una proposta immediata per prevenire la sberla che, inevitabilmente, arriverà da Washington».

Quale sberla?
«L' annuncio da parte di Trump della volontà degli Stati Uniti di disimpegnarsi dalla Nato in termini operativi e, soprattutto, finanziari».

Sberla non piccola.
«Ma coerente con quanto promesso in questi mesi e richiesto dal suo elettorato: la fine dell' America global cop e la chiamata all' Europa affinché inizi a fare da sé».

E la proposta immediata per prevenirla sarebbe?
«La convocazione di un consiglio europeo straordinario a dicembre con all' ordine del giorno la creazione di un sistema di difesa europeo. Doppio vantaggio: l' Europa si fa trovare pronta e coglie al volo l' occasione offerta da Trump di assestare un colpetto all' ortodossia dei vincoli di bilancio».

In che modo?
«È evidente che in questo scenario la spesa militare degli Stati europei dovrà crescere fino al 2,5 o 3 per cento del pil. Questo da una parte sarà una mano santa per l' industria, dall' altra renderà chiaro che queste spese sono nell' interesse comune dell' Unione, e che quindi devono uscire dai bilanci nazionali».

E la leadership europea è in grado di farlo?
«Purtroppo la leadership europea è quella che è».

E non è partita benissimo...
«La Ue deve darsi una regolata, da un politico di lungo corso come Juncker mai mi sarei aspettato di sentire frasi come quelle che ha detto. Speriamo gli siano solo scappate».

Alla fine eravamo molto più preparati noi italiani che almeno avevamo visto Berlusconi.
«È meno una battuta di quanto sembri. Trump presenta molte analogie con il Berlusconi del '94: entrambi sono portatori di un messaggio che è antipolitico solo in apparenza, ma che in realtà è il messaggio di chi si propone di portare nella gestione della cosa pubblica l' arte e la parte che ha dimostrato di avere in altri campi».

Altro elemento in comune è la reazione isterica dell' opinione pubblica...
«Quelle che stiamo vedendo nelle piazze americane sono brutte pagine, e bene ha fatto Obama ad invitare i dimostranti a stare in casa e ad accettare la vittoria di Trump. Detto questo, niente di nuovo sotto il sole: mi ricordo ancora la famosa manifestazione del 25 aprile '94, quando avevamo appena vinto e si creò una mobilitazione oceanica nemmeno fosse tornato Mussolini».

È andata a finire che gli abbiamo esportato i girotondi?
«Credo che la paura di perdere il potere l' establishment americano ce l' avesse già in casa».

A proposito di esportazioni, c' è da prendere atto di una annunciata inversione a U nella politica estera americana.
«Di sicuro c' è da prendere atto del fallimento della politica estera di Obama, che ha iniziato il mandato con un Nobel per la pace sulla fiducia e lo ha finito lasciando in eredità due nuove guerre ed una minaccia terroristica più forte di prima. Per tacere della situazione europea».

E perché tacerne.
«È stato commesso l' errore di danneggiarsi da soli (economicamente con le sanzioni e politicamente per lo scacchiere mediorentiale) nel rapporto con la Russia.
E tutto per venire incontro alle paure dei Paesi baltici e della Polonia. Paure comprensibili, sia chiaro. Ma anche governabili».

Da cui la necessità di cambiare verso.
«Da cui la necessità di aggiornare le priorità. A partire dal rapporto con la Russia».

Torna lo spirito di Pratica di Mare?
«Sì che torna. Manca un Berlusconi che faccia stringere la mano ai due, ma l' impressione è che siano più che attrezzati per stringersela da soli».

Effetti pratici di questo ritorno?
«Principalmente il rafforzamento della lotta contro il terrorismo, che dei temi di politica estera è peraltro quello più sentito dagli elettori di Trump».

Da attuarsi come?
«Partendo dalla Libia. Che i primi due leader a congratularsi con Trump siano stati Putin e al Sisi qualcosa vorrà pur dire: con loro due nella partita, il generale Haftar di Tobruk si riconcilia con Tripoli e il governo di unità nazionale contro i jihadisti si fa in un baleno».

Politica estera che sarà diretta da un nuovo segretario di Stato. Che idee si è fatto sul toto-nomi che gira in questi giorni?
«Sia Newt Gingrich che John Bolton sono preparati e capaci. Certo, si tratta di persone in un certo modo organiche alla visione dell' era Bush ed alla sua politica estera, ma non ho dubbi che, nel momento in cui entrassero in un' amministrazione a guida Trump, sarebbero i migliori interpreti della linea del nuovo presidente».

Ma non è curioso che, per ribaltare la politica estera repubblicana, alla fine si debba ricorrere a totem viventi della politica estera repubblicana?
«Al contrario, è logico. Se devi fare la pace in Medio Oriente, la farai meglio con un premier israeliano di destra; se devi fare una riforma che spazza via il sindacato, la farai meglio con un governo di sinistra; se devi inaugurare una politica estera fatta di dialogo con Mosca e disimpegno globale, chi meglio di un falco interventista per portarla a termine?».

E intanto qui abbiamo un ministro degli Esteri ed un premier poco più che esordienti ad affrontare uno sconvolgimento transatlantico senza precedenti.
«Compito difficile ma non impossibile. Certo, la partenza di Renzi non è stata il massimo».

Si riferisce all' aperto sostegno dato alla Clinton?
«C' è una frase della Clinton che mi ha molto colpito: "Ci sono premier di alcuni Paesi che mi hanno incoraggiata a difenderli da Trump, come il premier italiano".
Un azzardo molto grosso ».

Soprattutto, un azzardo di cui non bisogna far sapere in giro.
«Esattamente. Ricordo che nel 2008, nonostante avessimo netta la percezione della vittoria di Obama e nonostante Berlusconi fosse molto intrigato dal personaggio, riuscii a fare rispettare la consegna del silenzio fino a spoglio avvenuto».

E invece noi siamo partiti male.
«Quello senza dubbio, ma niente drammi. Può darsi che il nostro premier non sarà il primo nella lista dei colleghi da abbracciare, ma non credo proprio che Trump avrà alcun interesse ad effettuare un downgrade del ruolo strategico dei rapporti con l' Italia».

Franco Frattini visto da Benny (Libero)

GLI STUDI Franco Frattini ha frequentato il liceo classico e si è laureato in giurisprudenza nel 1979. Dal 1984 è stato avvocato dello Stato, magistrato del Tar Piemonte. Nel 1986 è stato nominato Consigliere di Stato.

POLITICA Nel 1994 aderisce a Forza Italia ed è nominato Segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri durante il governo Berlusconi. È Ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali del successivo governo Dini. Dal 1996 al 2001 è presidente del comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti (Copaco) eletto con voto unanime di maggioranza e opposizione.
Dal novembre 1997 all' agosto 2000 è Consigliere comunale a Roma. Nel 2001 viene nominato ministro per la funzione pubblica del governo Berlusconi II. Dal 14 novembre 2002 al 18 novembre 2004 diventa Ministro degli affari esteri.

L' EUROPA Dal 2004 al 2008 è commissario europeo. Nel 2008 Frattini ha preso l' aspettativa dall' incarico di commissario europeo per candidarsi alle elezioni italiane. Dal 2008 al 2011 è tornato Ministro degli affari esteri nel governo Berlusconi IV, come già tra 2002 e 2004. Nel dicembre 2012 lascia Il Popolo della Libertà.

ALTA CORTE Dal 2014 è giudice dell' Alta corte di giustizia sportiva del Coni, il più alto incarico della giustizia sportiva italiana.

14.11.16 | Posted in , , , , , , , , , , | Continua »

Dopo la Brexit: quali implicazioni per Londra, l’Europa e l’Italia


Il diritto di Londra di uscire, e il dovere dell’Ue di evitare la fuga generalizzata 

Lectio magistralis di Franco Frattini presso la Società Umanitaria di Milano e la sede SIOI Lombardia

Di tutte le ragioni della Brexit, ossia il voto sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, un dato è certo: il valore della democrazia. Ignorare il risultato referendario non sarà affatto possibile. Quando i cittadini sono chiamati alle urne per esprimere un voto libero e democratico, la loro volontà va sempre rispettata. Anche quando l’esito non corrisponde a quanto auspicato.

E’ da questa considerazione che dobbiamo partire se vogliamo tracciare un bilancio sullo spoglio britannico e delineare le prospettive future dell’Europa. Tre sostanzialmente i problemi all’origine. Le implicazioni politiche del voto e la responsabilità dei leader britannici. I rapporti della Gran Bretagna con l’Unione europea e con gli Stati membri, e quindi anche le conseguenze economiche e sugli accordi da definire. Infine, la determinazione e il necessario cambio di passo di Bruxelles. 

Un dato è evidente: non si è trattato di un voto di pancia, di una reazione populista o di antipolitica. Gli elettori hanno preso sul serio il quesito referendario, sono andati a votare in massa (l'affluenza alle urne è stata del 72,2% degli aventi diritto) ed hanno espresso la loro opinione in modo chiaro ed inequivocabile. Il Leave ha prevalso con il 51,9% dei voti, forte del voto dei più anziani e delle periferie più povere e deindustrializzate. Suggestiva anche la ripartizione geografica del voto: ad esprimersi per l’uscita il Galles e il resto d'Inghilterra. Mentre Scozia, Irlanda e Londra hanno votato largamente per il Remain. 

Risultati che confermano che la scelta degli elettori è stata soprattutto di natura politica. I più grandi sconfitti di questo referendum sono i giovani, quasi tutti propensi a rimanere nell’Unione europea per ragioni di opportunità, e invece surclassati dal voto di una generazione più adulta, che aveva già conquistato diritti sociali, garanzie e stabilità, e che ha quindi ritenuto che la preoccupazione principale fosse quella di proteggere i propri interessi. 

Vani, infatti, sono stati tutti i tentativi fatti per indirizzare il dibattito referendario sui vantaggi e svantaggi economici collegati alla Brexit. Le regioni deindustrializzate, ad esempio, hanno rinunciato all’ombrello europeo perché hanno pensato ai maggiori vantaggi che sarebbero derivati da un tessuto industriale locale slegato dai vincoli e dalla burocrazia dell’Unione. Alla fine si è trattato di una questione politica: se i cittadini temono un futuro meno sicuro a causa dei flussi migratori, o sono vittime della burocrazia bruxellese anche per pratiche più “di routine”, non si può rispondere loro con argomentazioni economiche e ipotetiche perdite di guadagni derivanti dall’uscita. Alla paura non si dovrebbe rispondere con un dossier. Tanto è vero che ne è nata una crisi, al momento per la Gran Bretagna, ma con implicazioni imprevedibili anche per i 27 paesi membri. 

Scelte politiche che sono dipese anche dalla mancanza di una strategia efficace da parte delle leadership, del governo e delle opposizioni: tutti i leader dei partiti hanno giocato una partita opaca, più orientata a calcoli di politica interna anziché prediligere scelte di reale interesse per l’economia ed il popolo britannico. Emblematiche sono state le dimissioni a catena che si sono susseguite, come quelle del premier David Cameron, di Boris Johnson e del leader dell’Ukip Nigel Farage, o la sfiducia incassata dal laburista Jeremy Corbyn. 

Soprattutto non è esistita una chiara distinzione politica sulle due scelte: Leave e Remain sono risultati entrambi gruppi trasversali, dove il colore politico era difficilmente comprensibile. Conservatori e laburisti si sono divisi tra loro sulla questione e per gli elettori ripercorrere il filo del discorso è diventato ancor più complesso e confusionario.

Pensiamo al fattore Cameron: colui che a questo referendum ha aperto le porte per rafforzare la propria posizione all’interno del partito. Dopo aver ottenuto il secondo mandato da Premier, è tornato a Bruxelles sbattendo i pugni sul tavolo per ottenere un accordo per ridefinire i rapporti tra il Regno Unito e l'Unione europea. Un testo che sarebbe entrato in vigore soltanto a patto di una vittoria del Remain. Ma per il cittadino medio britannico il cambio di casacca del Premier ha creato non poca confusione. 

Oltremanica Bruxelles ha sempre affascinato poco. Circostanza che ha portato l’ex sindaco di Londra Boris Johnson e l’europarlamentare Nigel Farage a cavalcare l’ondata di antieuropeismo e a condurre il popolo britannico verso l’uscita. Salvo abbandonare i pro-Leave qualche ora dopo l’esito referendario. Dopo aver raggiunto “la sua ambizione politica” con la Brexit, Farage si è dimesso da leader dell’Ukip (ma conserverà fino alal fine il seggio ben remunerato al Parlamento europeo). Mentre l'ex sindaco di Londra Boris Johnson è caduto vittima di una congiura interna al partito conservatore che di fatto gli ha impedito di correre per la guida dei Tories, e dunque del governo. Lo hanno ricompensato con il Foreign Office, dove sta già dando prova di quanto possa essere controproducente in quel ruolo, attribuitogli poiché la nuova premier Theresa May non poteva correre il rischio di lasciarlo a terra, insoddisfatto, rumoroso e rancoroso.

Con la vittoria del Leave è emerso anche il ruolo marginale del Labour, dal momento che la campagna laburista ha spostato davvero poco. Così come inadeguata ne è risultata la leadership di Corbyn e la conseguente spaccatura interna (il ministro degli Esteri “ombra” esonerato, e le dimissioni di 11 colleghi). Qui non si tratta solo dei vantaggi economici e commerciali che la Gran Bretagna potrebbe perdere con l’uscita dall’Europa: la mancanza di una leadership politica forte e credibile potrebbe mettere a rischio addirittura l’unità del Regno Unito, generando derive indipendentiste come quella subito avanzata dalla Scozia, che ancora riflette su un nuovo referendum per l’uscita dal regno Unito abbinato al “rientro” nell’Ue.

Il risultato è evidentemente quello di aver certificato non solo la debolezza della leadership inglese, ma anche la totale assenza di unità, strategia e decisionismo tra i leader dei 27 paesi Ue. Sorprende la dichiarazione del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, ad una settimana dall’esito del referendum, quando ha affermato che l’uscita del regno Unito dall’Europa “è solo un incidente”. Il che dimostra la mancata percezione delle dimensioni e della serietà di questo evento, nonché delle implicazioni che ne derivano e ne deriveranno.

La Brexit, come ha scritto Thomas Friedman in un editoriale sul New York Times, “non è la fine del mondo, ma potrebbe segnare la fine dell’Unione, se non la usiamo per fondare una nuova Europa”. Lo abbiamo sempre detto, l’Unione non può essere solo economia e finanza. L’Europa deve anche occuparsi di materie sociali, di opportunità e di sicurezza. Purtroppo, invece, come nel caso dell’accordo tra Cameron e Bruxelles, si è pensato di più ad offrire dei risultati vendibili in favore del Remain. Accordi, raggiunti secondo il solito “teatrino” delle regole europee, conclusi con un solenne annuncio politico fatto da primi ministri dei paesi membri, ma che non vengono percepiti come soluzioni che migliorano nei fatti il rapporto cittadino – istituzioni europee. Si pensi ai cambi di casacca e ai passi indietro sul tema dell’immigrazione, o alle provocazioni e alle ripercussioni sulla libera circolazione.

Concretezza e trasparenza, quindi. E’ da qui che l’Europa dovrà ripartire. Iniziando con il dare concretezza all’articolo 50 del trattato di Lisbona quando stabilisce che “il paese dell'UE che decide di recedere, deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo, il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese”; e che “i trattati cessano di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine”.


Tuttavia, come si evince dai due commi, l’articolo 50 dice solo che i negoziati si devono concludere entro due anni, e che questo periodo può essere esteso. Mentre nulla viene detto su quando la notifica dell’intenzione di uscire debba avvenire. Una lacuna che rischia di minare la credibilità stessa del Trattato, il cui articolo sulla clausola di recesso è stato invocato per la prima volta, ma potrebbe costituire un pericoloso precedente per le sorti dell’integrazione europea.

La premier May ha recentemente annunciato che l’art. 50 del Trattato verrà “attivato” a marzo 2017. Si tratta di nove mesi dopo il referendum. E vi sono dubbi che a marzo intervenga solo l’annuncio della notifica ex art. 50 non seguita dall’immediato inizio delle trattative. 

La linea dei Ventisette resta chiara: ci si aspetta che il governo faccia la comunicazione della volontà di avviare le pratiche di separazione - atto che solo il governo di Londra può compiere – per evitare periodi di incertezza e anche per dare un messaggio chiaro di forza e di non cedevolezza ad altre forze leavers in giro per l’Europa. Insomma non esistono negoziati per star dentro in maniera “diversa”. 

Così come dubito che tra le possibili strategie per costringere la Gran Bretagna ad attivare le pratiche di separazione dall’Unione europea al più presto, si possa ricorrere in estrema ipotesi all’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che prevede la sospensione del diritto di voto di uno Stato membro negli organismi comunitari. La procedura è complessa e garantista, ma in sostanza si prevede che se uno Stato non rispetta i fondamenti di democrazia sui quali si basa l’Unione può essere così punito. 

Urge un messaggio chiaro ed inequivocabile: le istituzioni che si riconoscono nel Trattato di Lisbona hanno davanti a sé una scelta importante, che è quella di spiegare al governo di Londra che una volta vinto il Leave questa decisione si deve tradurre in una notifica e in un negoziato. 

L’accoglienza dei leader Ue e degli Stati membri durante la prima apparizione del premier, la settimana scorso al Consiglio europeo, è stata fredda se non ostile. Mi ha colpito che il Consiglio abbia dedicato pochissimo tempo e attenzione scarsa alla relazione che la premier May ha fatto sulla situazione attuale e le prospettive di inizio dei negoziati UK – Ue. Ciò che è invece emerso da un lato è la durezza con cui il negoziato si sta preparando – affidato alla regia di Michel Barnier, già ministro degli esteri e Commissario francese, che ha dovuto smentire la voce circolata di negoziati da condurre in francese!

D’altro canto è apparsa quasi surreale la dichiarazione di ottimismo della signora May e al limite del ridicolo la frase “l’Ue è ancora la migliore società del mondo” pronunciata dal presidente del Consiglio Ue, il polacco Donald Tusk. Forse non del tutto consapevole del ruolo guida del suo paese rispetto al cosiddetto “gruppo di Visegrad” che rifiuta sempre di più i cardini del processo di integrazione.

Le implicazioni per Londra e per i Ventisette potrebbero essere catastrofiche, e per Bruxelles; ad esempio, abbiamo già visto come le conseguenze della Brexit abbiano già creato gravi turbolenze dei mercati finanziari e quanto il valore della sterlina sia diminuito: grande problema, questo, per un paese che compra materie prime e prodotti manifatturieri.

Per la Gran Bretagna gli effetti di medio-lungo periodo dovranno essere valutati e ponderati. Theresa May ha sì fatto presente che in caso di vittoria a Downing Street il tema dell’immigrazione sarà affrontato contestualmente alla fine della libera circolazione. Una dichiarazione ad effetto, ma che non può non tener conto del fatto che la libera circolazione delle persone rientra tra le quattro libertà fondamentali su cui si fonda l’Europa. E che se anche una sola di queste libertà non venisse rispettata il Regno Unito non potrebbe ottenere di rimanere nel mercato interno. Il modello norvegese – invocato dai Brits - è molto chiaro: la partnership Ue - Norvegia si basa sul rispetto delle libertà fondamentali tra cui la liberta circolazione delle persone, tanto che Oslo è anche membro di Schengen. Si tratta di termini negoziali che hanno implicazioni politiche e socio economiche profondissime. Ecco perché i negoziatori britannici devono valutare prima del negoziato il reale impatto che ne deriverebbe. 

Alcuni analisti hanno stabilito che l’effetto Brexit potrebbe costare all’Europa fino a mezzo punto di Pil. Il governatore della banca d’Italia ha parlato ad inizio luglio di 0,25 – 0,26. Questo si vedrà tra qualche mese, una volta metabolizzati il crollo dei mercati ed il conseguente panico finanziario che si sono venuti a generare nelle 24 ore successive al referendum. Certo la domanda resta: vi sarà un effetto domino in direzione di altri paesi? Come ad esempio il leader euroscettico olandese Geert Wilders ha proposto di fare nel suo paese proponendo una “Nexit”. O come potrebbe accadere in Austria, se nella nuova elezione presidenziale risultasse vincitore il candidato euroscettico del FPO Norbert Hofer. E, soprattutto, accanto all’effetto domino ci sarà un irrigidimento di gruppi di paesi volto a rivendicare specifiche pretese settoriali o regionali con una sorta di Europa à la carte? Come ad esempio vogliono fare i paesi di Visegrad sostanzialmente guidati dalla Polonia, ma tra cui figura anche la Slovacchia che dal 1 luglio ha assunto la presidenza dell’unione europea. Ancora una volta l’Europa rischia di colorarsi a macchia di leopardo, un’altra realtà di Brexit su cui dobbiamo lavorare.  

Negli scorsi giorni, il presidente dell’associazione bancaria britannica Browne ha pubblicamente ammesso che le grandi banche britanniche si preparano a trasferirsi fuori dal Regno Unito nel 2017, per timore dell’effetto Brexit che sarà chiaro ed evidente solo quando i negoziati entreranno nel vivo.

Oggi le banche britanniche grazie al “diritto di passaporto” possono offrire servizi finanziari a persone nella intera Ue senza alcun ostacolo. E’ evidente che la possibilità perduta di tale prerogativa, insieme alla reintroduzione delle barriere doganali per l’uscita dal mercato comune Ue, provocherebbe danni gravissimi. Una stima della società di consulenza “Oliver Nyman”, quotata da Bloomberg, indica solo per effetto della perdita del “diritto di passaporto una riduzione di ricavi fino a 40 miliardi di sterline, e un esubero di 70 mila lavoratori del settore bancario”.

Rivelazioni non confermate pubblicate da autorevole stampa britannica parlano di una contromossa allo studio di Downing Street. Il governo britannico, una volta “libero” dal vincolo Ue, dimezzerebbe la Corporation Tax dal 20% al 10%, per indurre finanza e corporate a restare “malgrado Brexit” e per esercitare pressioni su Bruxelles a cui evidentemente questo massiccio taglio fiscale appare come lesivo della sana e leale concorrenza.

Una Corporate Tax al 10%, inferiore persino a quella irlandese del 12,5%, contro cui l’Ue sta premendo, sarebbe un terzo dell’aliquota italiana, tedesca o francese.

La mia impressione è che se tale idea venisse davvero attuata, senza limitarsi all’uso di essa come “minaccia negoziale”, l’Europa dovrebbe reagire con più, non con meno durezza. L’Europa à la carte sarebbe un pessimo esempio per altri paesi che hanno già pronta la loro lista della spesa.

Se vogliamo essere europei dobbiamo esserlo non solo a parole, ma anche sancendo una concreta disponibilità a maggiori passi verso l’integrazione e l’unità politica. Ho letto, ad esempio, che dalla Commissione europea sono filtrati suggerimenti per rafforzare le politiche di sicurezza e di difesa comuni, e per affrontare finalmente nei paesi di origine dell’immigrazione il tema degli aiuti allo sviluppo. Ma sarà questa una realtà? O saranno ancora le mille ripetute affermazioni solenni dei vertici Ue cui oramai siamo abituati? E’ chiaro anche qui che gli effetti del non decidere e del non avere una posizione politica forte su questi temi, certamente favorirà coloro che come forza centrifuga stanno spingendo in Europa per moltiplicare l’effetto Brexit.

Da convinto europeista credo sia sbagliato ripetere il mantra “più Europa”. Il voto britannico ci dice che lo slogan dovrebbe essere una “diversa Europa”. Un’Europa migliore che la smetta di fare ciò che non serve alla vita dei cittadini e di attivarsi invece per ciò che è drammaticamente importante dal punto di vista politico, economico e sociale, come ad esempio allentare il vincolo con più flessibilità per gli investimenti al fine di creare più sviluppo e occupazione, e non mettere in discussione pilastri dell’unione bancaria che includono garanzie per i risparmiatori.

Io credo che ogni paese debba ridurre la spesa pubblica e non finanziare in deficit la crescita. Ma in una situazione ancora grave con bassa crescita e stagnazione, minacciare la bocciatura della manovra per dissensi sullo 0,1 del Pil sarebbe sbagliato per l’Ue.

Più soluzioni, meno burocrazia e soprattutto meno freni alla crescita e alle produzioni nazionali. Penso ad un episodio accaduto proprio qualche mese fa e che potrebbe accelerare verso l’euroscetticismo anche la voce dell’Italia, tra i pochi paesi dove ancora forse si sostiene l’Ue. Mi riferisco all’episodio del formaggio senza latte. Come sappiamo l’Italia (a differenza di altri Paesi) ha una legge severa che impone di fare tutti i formaggi usando il latte vero, e proibisce l’uso dei succedanei. Ma, notizia di qualche mese fa, la Commissione europea ci ha inviato una diffida, per imporre “la fine del divieto di detenzione e utilizzo di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito nella fabbricazione dei prodotti lattiero-caseari”. In parole povere Bruxelles decide che per adeguarci a quanto in uso negli altri Paesi europei dobbiamo permettere anche noi la produzione del formaggio “zero latte”. Ecco, non è così che si aumenta il prestigio e la legittimità delle istituzioni europee. È ovvio che la enorme filiera della produzione alimentare dei produttori caseari italiani comincerà a chiedersi se questa Ue non sia un danno permanente anziché un’occasione come abbiamo raccontato finora.

E’ in un ambito assai più ampio, relativo alla politica estera, è ormai chiara a tutti l’assurdità delle sanzioni economiche contro la Russia, che paralizzano certo solo gli europei – e moltissimo le aziende italiane – e non certo gli USA che le hanno richieste e promosse a noi alleati.

In un momento in cui la priorità è sconfiggere insieme il terrorismo e non l’Ucraina, e l’impegno della Russia è essenziale e riconosciuto, bene ha fatto il nostro governo a far cancellare dall’ultima risoluzione del Consiglio europeo persino il riferimento indiretto a “nuove sanzioni” contro Mosca, laddove si dovrebbero rapidamente revocare quelle esistenti.

Insomma, se in un momento così critico, dopo la Brexit, vengono in mente queste azioni, allora vuol dire che non si è capito nulla di quali possano essere le reazioni dei popoli se vengono provocati nella loro identità, storia e cultura. E’ ora che Bruxelles capisca che queste decisioni portano acqua solo a chi vuole moltiplicare le Brexit in altri capitali europee. 

Agire vuol dire consolidare una politica europea che guardi alle sfide di medio e lungo termine. Non possiamo ad esempio continuare a nicchiare sull’immigrazione, perché se non la governiamo il fenomeno ci travolgerà. Ed è un altro elemento straordinario che non possiamo confondere con il populismo. Agire vuol dire rispondere con più sicurezza alla paura di chi abita nei quartieri poveri delle città. Agire vuol dire che non si può balbettare se la Scozia chiede un incontro con le istituzioni europee per negoziare il distaccamento da Londra e aderire all’Europa. Agire vuol dire svegliarsi sulle prospettive strategiche ad Est oltre che a Sud.

Il popolo inglese ha detto di no a un progetto di accordo sbagliato, un progetto deciso sopra le loro teste. Un progetto che il popolo (e non solo quello inglese) ha percepito infine come proprio nemico. Ed è precisamente questo il punto: una “diversa Europa” vuol dire un progetto amico e non nemico dei popoli. Qui non è in gioco solo il diritto della Gran Bretagna di uscire dall’Unione, ma anche il dovere di Bruxelles di evitare una fuga generalizzata dall’Unione.

28.10.16 | Posted in , , , , | Continua »

Video-news opp in Moscow with RUSSIA24



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13.10.16 | Posted in | Continua »

‘Europe lacks vision & leadership to address migration’ - live interview to Russia Today


The EU left Italy to deal with the refugee crisis alone “for many years” before realizing it was a pan-European issue, Franco Frattini, Italy’s former foreign minister who has also served as European Commissioner for Justice, Freedom, and Security, told RT.

Dealing with the EU’s immigration policies was part of Frattini’s job on the European Commission. He said powerful members of the alliance like Germany were reluctant to speak out against the status quo.

“The situation was not changing at all through the years. Then suddenly [they] realized that migration is a European issue, not a Sicilian or Italian or Greek. They realized [that there were] Balkan routes. At that moment they said: ‘Oh! We need border sharing, we need a distribution, we need to block our external borders,’” he said.


Frattini said that, during his tenure as a European Commissioner, he had suggested measures to make the EU’s borders more secure, but they were rejected.

“President of the European Commission [Jean-Claude] Juncker said a few days ago, ‘Frattini’s plan was never adopted; we need to re-propose it now ten years later.’ I’m not saying this to say I was good. But unfortunately Europe is lacking vision and leadership to address migration,” he said.

Now the problem has grown into one of the most important issues facing the EU, Frattini said. Attitudes towards refugees is now a key factor in elections all across Europe.

“In France, Marine Le Pen wants to get votes on [the refugee issue] and the government is rejecting it. Germany is going to election. This is one of the most important points at stake. The rightists are getting votes in all the regional elections in Germany on this. Austria will likely vote for an anti-migrant president, again on this. They close the border between Austria and Italy for weeks and months on this!” he said.

Frattini also spoke to RT about the ongoing stand-off in Syria, where the violence has continued since the US broke off cooperation with Russia on a ceasefire and is reportedly considering attacking Syrian government forces.

The former minister said the current wave of confrontational rhetoric is unlikely to lead to any breakthrough in Syria, and that the key players must cooperate and compromise to find a meaningful solution to the crisis.



“Some years ago, [US] President [Barack] Obama made a formal proposal to the European allies to go to war against Assad. And he realized even his closest ally, [then-UK Prime Minister David] Cameron, did not find a majority in the House of Commons. And the proposal has been withdrawn,” Frattini said.

“Then we moved from the failed proposal to go to war to an opposite proposal – to cooperate on Assad to dismantle [the Syrian] chemical arsenal. Russia, the East, Europe agreed, and it was the only successful example of cooperation since the beginning of the crisis in Syria. So my moral is: cooperation – success; fighting, confrontation, threats – failure.”

10.10.16 | Posted in , , , , , , , , , , | Continua »

No-fly zone in Aleppo would protect Al-Nusra – interview to Russia Today

No-fly zone in Aleppo would protect Al-Nusra – former Italian FM to RT 



Creating a no fly zone in the Syrian city of Aleppo would mean protecting Jabhat al-Nusra terrorists, who should instead be the target of international airstrikes together with Islamic State, Franco Frattini, Italy’s former foreign minister, told RT. 

“It was a mistake from the Western coalition in not highlighting the distinction between the so-called moderate rebels and… [Jabhat] al-Nusra,” Frattini, who has also served as European Commissioner for Justice, said in an interview at RT’s studios in Moscow on Sunday. 

The former Italian FM expressed confidence that Al-Nusra should be a target of international strikes, just like Islamic State (IS/Daesh, formerly ISIS/ISIL). “I’m completely convinced that if this point is overcome, the solution [to the Syrian crisis] will be found,” he said. Frattini spoke out against creating a “no-fly zone” over Syria’s strategic city of Aleppo, which was proposed by France in a vetoed UN Security Council resolution earlier this week. “Let’s not talk simply about the ‘no-fly zone,’” Frattini said. “I know very well the story of the no-fly zone in Libya. But now a no-fly zone in an area Al-Nusra [controls], will be protecting an Al-Qaeda-affiliated group.” 


Despite claims to the contrary from Washington, “it is possible to separate Al-Nusra from moderate rebels because al-Nusra occupy some well-determined areas of eastern Aleppo” and modern military technologies “allow [us] to target particularly small areas where terrorists are without hitting innocent civilians,” Frattini said. According to Frattini, the Americans are pandering to its allies in the Middle East by refusing to separate Al-Nusra jihadists from the moderates. “It’s not mainly the US interest. It’s the interest of Gulf Sunni states that are behind Sunni jihadists… Saudi Arabia is supporting jihadists, providing weapons. And Saudi Arabia is historically an ally of the US,” he said. “Sunni states in the Gulf want to liberate Damascus from Syrian President Bashar Assad and all the Shia that are there, not to liberate eastern Aleppo from terrorists,” Frattini added. 


Meanwhile, there is Iran on the other side, which said that “protecting eastern Aleppo from terrorists is our national interest” and will never allow Assad to be removed, he said. “Let’s restore a contact group where all main players [are present] – first of all, Russia and the US, but also Turkey, Saudi Arabia and Iran. Without having these five players around the table” no peace can be achieved in Syria, Frattini said. The various sides must talk, no matter what their differences are, as “you can only make peace with your enemies, not friends,” he explained. The breakdown of the Russia-US peace deal in Syria in late September “shouldn’t be the end of cooperation,” the politician said. “It’s going to be against the interest of the US, us the Europeans, against the interest of stability in the whole region,” he added. Military and diplomatic cooperation between Russia and the US is the only way to succeed, which was proven by the successful destruction of Syrian chemical weapons back in 2014, Frattini said. “From [Obama’s] failed proposal to go to war [with the Syrian government] we go to the opposite proposal to cooperate with Assad to dismantle the chemical arsenal. Russia, the East, Europe agreed. And it was the only successful example of cooperation since the beginning of the crisis in Syria… This is the example from, which we have to learn,” he said. Recent harsh statements toward Moscow from Washington can be explained by the American presidential campaign, with “rhetoric becoming louder and louder and louder as the election approaches,” the ex-FM said. He urged the US not to downplay Moscow’s achievements in Syria, stressing that “Russia, which isn’t the best ally to Riyadh, has been a bit more committed.” 


“Since Russia decided to engage very strongly in Syria’s fight against the terrorists, things have changed in a good direction – Daesh has reduced its sphere of occupation, many cities and villages were liberated,” Frattini said.

10.10.16 | Posted in , , , , , , , , | Continua »

Working dinner con Peter Altmeir per un confronto sull'immigrazione


Grazie alla Konrad-Adenauer-Stiftung Rom e alla direttrice Caroline Kanter per aver organizzato un'interessante scambio di riflessioni ed idee con Peter Altmaier sul complesso tema delle migrazioni. Un sincero amico ed un eccellente collega con cui ho avuto il piacere di lavorare proprio sui temi della sicurezza e dell'immigrazione durante il mio mandato in Commissione Europea. 



7.10.16 | Posted in , , , , | Continua »

Migranti: Juncker, 8 anni ritardo proposta frontiere Frattini


Un ringraziamento al presidente Jean Claude Juncker per aver ricordato che l'impegno 8 anni fa c'era ed era determinato. Ma purtroppo ben ricordo il disinteresse di molti Paesi e l'ostilità del Parlamento europeo nell'affrontare la spinosa questione delle forntiere esterne.  FF

 "Fatta quando era commissario, ma gli Stati si sono attivati solo ora"

"La crisi dei rifugiati è importante perché è il motivo per cui la Ue si divide" e la Ue "non deve lasciare sole l'Italia, la Grecia o Malta" ovvero "i paesi in prima linea che la Ue deve assistere". Lo dice il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker alla plenaria del Cese, aggiungendo: "ammiro l'Italia, fa meglio della Grecia perché ogni giorno salva migliaia di vite" e "le navi di tutta Europa portano tutti in Sicilia e lasciano all'Italia il compito di nutrirli e ospitarli". La solidarietà nella ripartizione dei rifugiati tra i diversi ci "deve essere". "Alcuni paesi lo fanno, altri dicono di no perché sono cattolici e non vogliono musulmani. Questo è inaccettabile" perché non si tratta di musulmani ma di esseri umani. Dice Juncker aggiungendo che comunque se quei paesi "non possono fare la ripartizione, allora devono partecipare di più al rafforzamento della protezione delle frontiere esterne che va fatta entro fine ottobre".

"Nel 2007 sotto il commissario Franco Frattini, la Commissione aveva gia' presentato una proposta per la protezione delle frontiere esterne", ma questa idea di rafforzarla ha invece suscitato l'interesse degli stati membri solo oggi, "con 8-9 anni di ritardo". Cosi' il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker parlando al Cese, dove ha ancora sottolineato, sul fronte dei migranti musulmani che alcuni Paesi non vogliono accogliere, che "prima vengono gli uomini, e poi le religioni".

22.9.16 | Posted in , , , , | Continua »

Frattini: “Il depistaggio parte tutto dagli agenti” (intervista Il Piccolo)


Secondo l’ex ministro degli esteri il giovane di Fiumicello sarebbe stato vittima di una guerra tra servizi segreti fedeli e infedeli all’attuale regime al potere 

di Mauro Manzin (Il Piccolo)

Troppi ritardi, troppe omissioni, il tutto all’interno di una guerra intestina tra servizi segreti, quelli fedeli ad Al Sisi e quelli ancora legati ai Fratelli musulmani del precedente regime: è questo il mix allucinante nel quale è stata stritolata al Cairo la vita del ricercatore di Fiumicello Giulio Regeni. Ne è convinto l’ex ministro degli esteri e presidente della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI), ente morale a carattere internazionalistico, operante sotto la vigilanza del ministero degli Affari Esteri, anche alla luce degli esiti dell’incontro tra magistrati romani ed egiziani. 

Dopo l’incontro tra magistrati italiani ed egiziani a Roma qualcosa si sta muovendo sul fronte delle celle telefoniche relative alla scomparsa di Giulio Regeni… 
Si muove lentamente e dimostra come vi sia stato un voluto deficit di informazione nelle fasi iniziali. Ed è proprio dalla consegna dei materiali fatta oggi (ieri ndr) che emerge come ci sono state molte, molte lacune e probabilmente reticenze. Il caso delle celle telefoniche è emblematico, ma c’è il caso collegato, quello che il cellulare di Giulio sarebbe stato alterato cancellando alcuni messaggi che il ragazzo avrebbe ricevuto. C’è stata quindi una manomissione del telefono. Se questo fosse accertato in modo definitivo costituirebbe un voluto intralcio alle indagini di cui i procuratori egiziani dovrebbero occuparsi a casa loro. 

C’è stata quindi una voluta perdita di tempo da parte dell’Egitto… 
Sicuro 

Per coprire chi? 
Sono convinto sempre più che questa tragedia sia stata causata da un vero conflitto più o meno strisciante tra elementi del regime ed elementi infedeli al regime. Una guerra tra servizi deviati o di frange sei servizi deviati che hanno lavorato per rovinare l’immagine dello Stato contrastati da elementi fedeli allo Stato. Un’operazione che non ha niente a che fare con bande di rapinatori come il Cairo ha cercato di farci credere. 

Infatti anche i magistrati ieri a Roma hanno considerato questa pista di scarsissimo valore investigativo… 
Era chiaro che non c’entrava nulla, quindi siamo di fronte a dinamiche tutte interne al sistema di sicurezza e intelligence egiziano, da un lato per nulla trasparente, dall’altro sicuramente attraversato da tensioni interne che possono portare a cose come queste se nona peggiori. 

Il caso di Giulio è avvenuto in un momento storico per l’Egitto di cambio di regime dove non tutti gli apparati erano fedeli ai nuovi potenti… 
C’è stato un capovolgimento di fronte in meno di tre anni. Quando è arrivato Morsi c’è stata un’occupazione massiccia dei sistemi di intelligence e sicurezza da parte dei Fratelli musulmani. Quando è arrivato Al Sisi evidentemente c’è stata una contro occupazione non riuscita appieno. 

Dunque Giulio è stato stritolato da faide interne? 
Direi di si. Il povero ragazzo si è trovato in mezzo a pesanti e violente faide interne egiziane. 

E pensare che i magistrati egiziani hanno fatto sapere ieri che Giulio, su denuncia del capo del sindacato indipendente dei rivenditori ambulanti, è stato indagato dalla polizia del Cairo, ma su di lui non c’è stato nulla da eccepire… 
Nella polizia del Cairo con le sue omissioni vi è l’origine di tutte le responsabilità. Intanto emerge oggi, dopo mesi e mesi, che la polizia aveva indagato su Regeni, il che vuol dire che Regeni lo conosceva ed è quindi falsa la meraviglia con cui all’inizio la polizia stessa aveva circondato la scoperta del cadavere di Giulio: “Mai visto, mai sentito, non sappiamo chi è”. E’ impossibile che non sapesse in quanto aveva indagato su di lui. E poi tutto quello che è mancato finora non è mancato perché il procuratore egiziano non ha agito, ma perché la polizia non ha fornito al procuratore ad esempio le celle telefoniche. 

C’è poi la questione della video sorveglianza della metropolitana… 
Quel sistema è decrittabile con un sistema tecnico, forse abbastanza complesso, che se gli egiziani non sono in grado di attivare, lo avrebbero potuto attivare gli investigatori italiani. Un prodotto forse di produzione tedesca e l’Italia aveva detto al Cairo: “Ve lo decrittiamo noi”. Ma quelle video cassette la polizia non le ha ancora fornite. 

10.9.16 | Posted in , , , , | Continua »

MURO DI CALAIS/ Frattini: gli inglesi e la Merkel hanno isolato l'Italia





Intervista a Il Sussidiario

Il governo britannico inizierà la costruzione di un muro vicino a Calais per impedire l’ingresso dei migranti nel Regno Unito. Lo ha reso noto la Bbc, che cita il ministro degli Interni Robert Goodwill. Il muro sarà alto 4 metri e correrà per 1 chilometro su entrambi i lati della strada principale verso il porto di Calais. Il ministro Goodwill ha affermato che la sicurezza è “calpestata” in quanto i migranti continuano a cercare di salire a bordo di veicoli diretti verso la Gran Bretagna. Ne abbiamo parlato con Franco Frattini, ex ministro degli Esteri ed ex Commissario Ue per la Giustizia, la Libertà e la Sicurezza.

Che cosa ne pensa della decisione di costruire un muro anti-migranti a Calais?
Il muro sull’autostrada di Calais è l’effetto dell’esasperazione che si vive in Gran Bretagna, come del resto in Ungheria o Bulgaria, di fronte all’incapacità dell’Europa nel gestire il fenomeno migratorio. Quando si fa una sorta di “Tana libera tutti”, ognuno si costruisce il proprio muro.

Che cosa sta avvenendo in Europa?
Quello di Calais è l’ennesimo segnale di uno sfaldamento completo dell’Europa, perché malgrado la Brexit il Regno Unito è ancora oggi membro dell’Ue e la Francia è uno dei suoi Paesi fondatori. Si sceglie quindi di ricorrere a soluzioni nazionali, che chiaramente sono l’effetto di una reiterata sfiducia verso la nullità dell’azione europea.

La Merkel ha affermato che la situazione è migliorata rispetto a un anno fa. E’ così?
E’ migliorata dal punto di vista degli interessi della Germania. La rotta balcanica è stata chiusa a forza di muri, ma è ancora oggi stra-aperta la rotta siciliana. Ogni giorno da noi arrivano enormi quantità di persone, che non si distribuiscono più in rotte diverse perché oggi quella italiana è l’unica a essere rimasta agibile.

La cancelliera tedesca ha aggiunto che rifarebbe gli accordi con la Turchia. Condivide questa posizione?
Mi rendo conto che la Merkel ha dei problemi per quanto riguarda la politica interna, ma la situazione non è migliorata grazie all’accordo con la Turchia bensì grazie alla collaborazione che Ankara sta garantendo su base unilaterale.

In che senso?
Oggi la rotta balcanica è chiusa solamente per la buona disponibilità della Turchia, mentre da parte dell’Ue quell’accordo è ancora in larga parte non adempiuto. Si sta parlando del rinvio di un semestre della liberalizzazione dei visti con la Turchia, che era il punto politico più importante che aveva indotto Erdogan a mettere la firma sull’accordo. La Turchia sta agendo con responsabilità, ma bisogna ricordarsi che quell’accordo da parte dell’Ue è stato inapplicato.

E’ l’unico errore commesso finora da Bruxelles?
No. L’Ue è stata completamente nulla nel moltiplicare gli accordi di riammissione con i Paesi d’origine e di transito. Ancora una volta la Merkel parla di accordi con Libia, Tunisia ed Egitto. Di fatto però questi accordi, che sono stati stipulati dall’Italia come Stato nazionale, sono resi non funzionanti per il fatto che manca la ratifica europea.

Il milione di profughi presenti in Turchia è un’arma nelle mani di Erdogan. Come disinnescarla?
Noi la dovremmo disinnescare in primo luogo rispettando gli accordi europei. Qualche mese fa il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, ha ammesso che dei 5 miliardi di euro promessi a Erdogan ne sono stati erogati solo poche briciole. Inoltre non possiamo bacchettare la Turchia ogni giorno per ogni sorta di problemi e nel contempo volere che ci tenga fermi i rifugiati. E’ necessario quindi concedere i visti liberalizzati, perché quando si firma un accordo poi va rispettato.

Anche dopo la repressione del colpo di Stato da parte di Erdogan?
Neanche a me piace vedere i giornalisti turchi incarcerati. Ma nel prossimo vertice di Bratislava i capi di governo dovranno stabilire se la Turchia sia ancora un partner dell’Ue. Se ritengono che sia un partner e nello stesso tempo si bloccano i negoziati per l’adesione, conoscendo Erdogan questa cosa durerà poco. Prima o poi la bomba a orologeria dei migranti comincerà a ticchettare.

Intanto l’Italia sta accogliendo i profughi che arrivano via mare. Quali alternative avremmo?
Abbiamo solo due alternative. La prima è chiarire se sia stato stracciato o meno l’accordo preso dai capi di governo sulla distribuzione dei migranti e dei rifugiati tra i Paesi che hanno attuato pienamente gli hotspot per l’identificazione. Il nostro governo infatti ha completato gli hotspot al 100 per cento, ma la redistribuzione non è partita. Se l’accordo non è stato stracciato, l’Ue deve ridistribuire i profughi che arrivano in Italia tra i vari Paesi membri.

Qual è la seconda alternativa?
Dieci anni fa ho lavorato su una proposta che poi è stata bocciata dal Parlamento Ue, perché ritenne che non era compatibile con i diritti umani, mentre nella realtà è esattamente il contrario. La mia idea consiste nell’affidare all’agenzia per i rifugiati dell’Onu la creazione di centri di identificazione nei Paesi di transito quali Libia e Tunisia. L’obiettivo sarebbe quello di stabilire chi può aspirare allo stato di rifugiato e chi no prima che questi disperati siano partiti.

(Pietro Vernizzi)

8.9.16 | Posted in , , , , , , , | Continua »

Alex Schwazer è innocente (ma non ho le prove), di Gianluca Ferraris (Panorama)


La Procura di Roma e quella di Bolzano dovranno accertare al meglio la verità, e speriamo che il meritato repulisti di chi ha tramato arrivi il prima possibile.
Franco Frattini


Dubbi, perplessità e qualche riflessione sulle accuse che hanno portato alla squalifica del marciatore italiano


Io so, ma non ho le prove.

Io so che Alex Schwazer è innocente.

Io so che Alex non prendeva più nemmeno un’aspirina, terrorizzato com’era da qualsiasi traccia di farmaci nel suo sangue.

Io so che Alex una notte ha urlato per un banale ascesso, perché l’oppiaceo con cui noi comuni mortali sediamo il nostro mal di denti lui non volle vederlo nemmeno da lontano.

Io so che Alex, dopo l’annuncio di voler tornare in attività, ha passato indenne oltre 40 controlli, la maggior parte dei quali a sorpresa.

Io so che non ha senso assumere «una lieve quantità» di testosterone il 31 dicembre senza esserti dopato né prima né dopo, e con il ritorno in pista lontano più di quattro mesi.

Io so che prelevare un campione di urina l’unico giorno in cui i laboratori dell’antidoping sono chiusi (permettendo così a mani ignote di trattenere la provetta con sé per 24 ore) è quantomeno strano.

Io so che mancano alcuni documenti di viaggio della fialetta. E che quando questa ricompare in un laboratorio di Colonia, invece di un codice numerico che dovrebbe rendere anonimo l’atleta, sopra c’è scritto Racines, Italia. Maschio che gareggia su lunghe distanze, superiori a 3 km. A Racines ci sono 400 abitanti. E un solo marciatore.

Io so che il primo controllo su quella fialetta fu negativo.

Io so che qualcuno, mesi dopo, suggerì al laboratorio una seconda analisi, che risultò lievemente positiva.

Io so che la Wada, l’agenzia mondiale antidoping che ha stanato Lance Armstrong e gli olimpionici russi, la più alta autorità del pianeta in materia, non ha partecipato ai controlli e alle analisi su Alex, interamente gestiti dalla Federazione internazionale di atletica.

Io so che i vertici vecchi e nuovi della Federazione internazionale di atletica sono stati a lungo chiacchierati per aver chiuso un occhio nei confronti dei tesserati russi, gli stessi che Alex e il suo coach Sandro Donati hanno contribuito a denunciare.

Io so che Donati è un mago delle tabelle di allenamento e un eroe della lotta al doping.

Io so che negli anni Novanta, quando Donati scoperchiò il cosiddetto sistema Epo, due degli atleti che allenava furono vittima di un caso di provette manipolate.

Io so che Alex, nonostante tre anni e mezzo di lontananza dalle piste, marciava ancora più veloce di tutti.

Io so che alla vigilia di una gara a La Coruna Donati ricevette pressioni perché Alex non infastidisse i marciatori cinesi candidati alla vittoria.

Io so che Alex in quella gara arrivò secondo, e che gli ispettori controllavano da vicino ogni suo passo per cogliere una qualsiasi irregolarità stilistica che lo avrebbe fatto squalificare.

Io so che l’allenatore dei cinesi è Sandro Damilano, fratello dell’ex marciatore Maurizio. E che prima della 50 chilometri di Roma, lo scorso maggio, qualcuno a lui vicino chiese a Donati di «lasciare vincere Tallent», l’atleta australiano che più aveva contestato il ritorno in pista di Alex.

Io so che Liu Hong, altra marciatrice cinese allenata da Damilano, dopo quella stessa gara fu trovata positiva all’higenamine, un vasodilatatore naturale, ma venne squalificata solo per un mese. Adesso lei è a Rio per gareggiare mentre Alex no.

Io so che subito dopo questa imbarazzante fila di coincidenze saltò fuori la presunta positività di Alex. Che però gli venne comunicata oltre un mese dopo, in piena preparazione preolimpica e con un margine davvero ristretto per organizzare una difesa tecnico-legale decente.

Io so che non assistevo a una simile solerzia investigativa, e a un simile tentativo di sobillare i media, dai tempi dell’incendio del Reichstag o dell’arresto di Lee Harvey Oswald. O per restare in ambito sportivo, da quel mattino cupo a Madonna di Campiglio che spezzò per sempre la carriera di Marco Pantani.

Io so che colpire Pantani e Schwazer, sportivi amati dal pubblico ma ragazzi fragili dentro, è facile. Troppo.



Io so che in molti avevano bisogno di punire in maniera esemplare chi ha avuto il coraggio di sfidare il sistema. Quello stesso sistema che poi si ripulisce la coscienza in favor di telecamera con il Refugee Team e i palloni regalati alle favelas.

Io so che Alex si è pagato da solo la preparazione, le divise, gli scarpini, il viaggio per Rio. Che ha finito i risparmi e che ha lavorato come cameriere per mantenersi gli allenamenti. Che dormiva in un tre stelle dietro al raccordo anulare e si faceva testare i tempi su una pista comunale, accanto a runner della domenica e anziani che portavano a passeggio il cane.

Io so che ha confessato i suoi errori del passato, e li ha pagati tutti.

Io so che si stava rialzando senza chiedere aiuti o riguardi, ma solo una seconda possibilità.

Io so che a Rio 2016 quella seconda possibilità è stata data ad atleti dal curriculum sportivo molto più «stupefacente» del suo.

Io so che nessuno di quelli che contano, dal Coni alla Fidal passando per i buonisti a gettone del mondo politico e degli editoriali qualunquisti, ha ancora speso una parola se non di difesa almeno di umana solidarietà per Alex.

Io so che Alex non ha la forza misurata per disperarsi restando saggio. Come non la ebbe Pantani.

Io so che a Rio 2016 Alex sarebbe arrivato sul podio nella 50 km e forse anche nella 20 km.

Io so che su quel podio Alex avrebbe pianto di gioia. Che sarebbe stato disposto a dimenticare.

Io so che invece oggi piange di rabbia in un bar fuori dal villaggio olimpico, come un emarginato. E che sarà condannato a ricordare.

Io so che qualcuno dovrebbe vergognarsi per aver rovinato una vita.

14.8.16 | Posted in , , , | Continua »

La guerra dell’Isis è di religione (di Antonio Polito)



Condivido questo articolo di Antonio Polito sul Corriere della Sera. E aggiungo: i religiosi DEVONO respingere l'idea di guerra santa, ma noi che siamo laici abbiamo anche il DOVERE di riconoscere che chi ci vuole uccidere nel nome del suo Dio ci ha dichiarato guerra. Ecco perchè dobbiamo difenderci e contrattaccare, perché o sopravviviamo e vinciamo noi, o la nostra civiltà millenaria scomparirà di fronte ai barbari. Attila si fermò dinanzi al Papa e non distrusse Roma, Daesh vuole distruggere il Papa, Roma e tutti noi. 
Franco Frattini 


Papa Francesco sta facendo uno sforzo eccezionale, direi quasi sovrumano, per evitare che la Cristianità si senta in guerra con l’Islam. È un grande contributo alla causa della pace, ricorda e replica l’inflessibilità con cui Giovanni Paolo II respinse, anche dopo la strage delle Torri Gemelle, il tentativo di Bin Laden di trasformare la sua guerra in guerra santa, e di combatterla come guerra di religione. Però all’interno della più vasta Cristianità, alla cui dimensione globale appartiene un Pontefice per la prima volta nella storia non europeo, ma «venuto dalla fine del mondo», c’è una comunità di princìpi e di valori che affondano le radici nel Cristianesimo ma non si identificano tout court con esso. Questa comunità è l’Occidente, cristiano, laico e secolarizzato. E l’Occidente è invece certamente sfidato dal radicalismo islamico in una vera e propria guerra di religione, un conflitto cioè in cui chi uccide lo fa in nome di un credo, e a un dio con blasfemia dedica il sangue che versa. Sfruttando la duttilità e precisione della lingua italiana, si potrebbe dire che non è in corso una «guerra tra religioni», ma una «guerra di religione» sì. E l’Occidente, cristiano e non, deve saperla combattere come tale. 

Questa guerra di religione sconvolge innanzitutto il mondo islamico, si svolge al suo interno prima ancora che rivolgersi a noi. Non è affatto la prima volta che accade nella Storia. Anche i cristiani hanno dato vita a un secolo di sanguinosissime guerre di religione. In cui certamente giocavano un ruolo anche «gli interessi, i soldi, le risorse della natura, il dominio dei popoli», come ha detto Francesco a proposito di quella in corso adesso. Ma la cui ideologia necessaria, vale a dire senza la quale la guerra non sarebbe stata possibile, era l’intolleranza religiosa e lo scontro tra cattolici e protestanti sull’interpretazione delle Sacre Scritture e sul ruolo della Chiesa. Così è oggi. Muoiono molti più sciiti e sunniti che cristiani per mano degli islamisti. E per questo sarebbe assurdo, oltre che pericoloso, considerare i musulmani che vivono da noi come i nostri nemici, antropologicamente dediti a odiarci. Bisogna piuttosto provare pietà per l’enorme sacrificio cui sono sottoposti loro malgrado, come sul lungomare di Nizza, dove a festeggiare la presa della Bastiglia e a finire sotto un Tir c’erano decine di francesi di fede islamica. Bisogna rispettarne lo sforzo culturale ed esistenziale per far convivere la religione dei padri con la vita all’occidentale dei figli, soprattutto quando chiediamo loro di denunciare i correligionari per proteggere il nostro stile di vita.

Ma se quella che abbiamo di fronte non fosse una guerra di religione, che senso avrebbe chiedere agli islamici europei di condannare e isolare i terroristi? Perché mai avremmo invitato i musulmani a pregare nelle nostre chiese, se a sconvolgerci non fosse un conflitto istigato da un centro operativo che si fa chiamare Stato Islamico e condotto da una minoranza di islamici per conquistare la maggioranza e trascinarla in una guerra civile europea? È stata da molti contestata a Francesco la mancata distinzione tra chi versa il sangue degli innocenti in nome di Dio e chi lo fa pur credendo in Dio, a proposito del suo equiparare un cristiano che uccide la fidanzata o la suocera a un islamico che fa strage gridando «Allah Akbar». È però difficile, e forse improprio, chiedere al vicario di Cristo di non condannare allo stesso modo l’assassinio, qualsiasi ne sia il motivo. A noi europei laici che non possiamo non dirci cristiani, spetta invece il compito di distinguere e capire, e di dare i nomi giusti alle cose, perché abbiamo il dovere di difendere la nostra civiltà da questa ennesima barbarie che la sta attaccando, come l’hanno difesa i nostri padri dai cristiani in camicia bruna durante la Seconda guerra mondiale e dagli atei con la bandiera rossa durante la Guerra fredda.

7.8.16 | Posted in , | Continua »

RAID LIBIA/ Frattini: paghiamo gli errori di Ue e Italia


“Gli Stati Uniti sono stati costretti a intervenire in Libia perché gli europei non hanno fatto il loro dovere, in quanto Francia, Regno Unito e Italia sono presenti solo in ordine sparso e in segreto”. Lo afferma Franco Frattini, ex ministro degli Esteri ed ex Commissario Ue per la Giustizia, la Libertà e la Sicurezza. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha fornito l’ok ufficiale a una missione di 30 giorni contro l’Isis nella zona di Sirte. Secondo Fox News, da lunedì gli Usa hanno lanciato almeno sette raid. Per Frattini, “l’Italia ha una grande opportunità in Libia: addestrare una Guardia nazionale sul modello dei carabinieri, integrandola con le milizie che rispondono ai vari capi locali”.

Intervista a Il Sussidiario

Ritiene che la missione degli Stati Uniti possa aiutare a stabilizzare la situazione in Libia?
Non so se aiuterà a stabilizzarla in via definitiva, ma è sicuramente una missione indispensabile. La cacciata di Daesh da Sirte è un obiettivo assolutamente condivisibile, ma la verità è che gli americani intervengono perché noi europei non abbiamo fatto il nostro dovere. Questa è una missione che, su richiesta delle autorità libiche, avremmo potuto compiere noi.

L’Italia avrebbe potuto intervenire da sola?
Certamente no, però dopo tante chiacchiere europee sulla missione contro gli scafisti e sull’intervento di sostegno internazionale, l’Europa è stata completamente assente. Noi riconosciamo un solo governo: quello di Al-Sarraj. A difesa di quel governo l’Ue aveva promesso una missione per bloccare gli scafisti e un training “institution building”. Siccome non si è fatto assolutamente nulla e Daesh continua a occupare Sirte, allora Al-Sarraj ha chiamato Washington e ha detto: “Il numero di telefono dell’Europa non so quale sia, quello americano è un numero sicuro, per piacere datemi una mano”.

Eppure Francia e Regno Unito sono presenti in Libia da tempo …
La Francia sta sostenendo fortemente il generale Haftar e il Regno Unito le milizie di Misurata. Quanto sta avvenendo però è il segno che quanto fa l’Europa avviene in segreto, perché queste sono forze speciali che agiscono in modo assolutamente non dichiarato, e inoltre in ordine sparso.

E l’Italia non fa nulla?
Io spero che, come ha scritto qualche giornale, sia presente in Libia anche qualche decina di militari italiani del Comsubin (Comando subacquei e incursori, Ndr) e delle forze speciali, in quanto l’Italia conosce la Libia meglio di inglesi e francesi. Le milizie libiche quando combattono guardano chi hanno vicino. Se vedono solo francesi, inglesi e americani poi pensano che gli italiani arrivino solo quando gli altri hanno fatto il lavoro sporco. Questo francamente per l’interesse dell’Italia non va bene.

Nello specifico l’Italia che cosa potrebbe fare in Libia?
Nell’ottobre 2011, poco dopo l’uccisione del colonnello Muammar Gheddafi, presi contatto con Hillary Clinton e con il primo ministro del Qatar. Insieme avevamo programmato una missione di addestramento di esercito e forze di sicurezza libiche che sarebbe stata fatta dagli italiani con una copertura sul terreno da parte del Qatar. Questo progetto poi non si è realizzato, ma l’Italia ha una grande opportunità a livello di formazione in quanto c’è bisogno di trasformare tutte le milizie in una Guardia nazionale libica.

Su quale modello?
Il modello da seguire è quello dei nostri carabinieri. E’ ciò che abbiamo già fatto in Iraq e Afghanistan, e potremmo riadattarlo alla Libia che è un territorio molto diviso regione per regione. Non andremmo a combattere, bensì a creare una Guardia nazionale che rimpiazzi progressivamente le milizie, integrandole tra loro. Senza questo processo di integrazione poi le milizie combatterebbero contro la Guardia nazionale.

Il ministro Paolo Gentiloni ha detto che l’Italia deve svolgere compiti umanitari. Lei che cosa ne pensa?
Da questo punto di vista noi siamo bravissimi. Quando c’erano i feriti a Bengasi un aereo italiano è andato a prenderli e li abbiamo curati. I compiti umanitari però sono un elemento, ma oggi quello che serve di più è creare una forza di sicurezza che non sia nelle mani delle milizie di questo o quel capo locale.

Un nuovo video dell’Isis ha ribadito il messaggio: “Arriveremo a Roma”. Come valuta queste minacce?
Negli anni ho avuto una responsabilità anche dell’intelligence italiana. Quest’ultima ha delle capacità che tutto il mondo ci invidia: le espulsioni anche di queste ultime ore mostrano che con la prevenzione noi siamo riusciti a sventare moltissimi attacchi terroristici. La minaccia quindi va presa sul serio, ma dobbiamo essere coscienti che le nostre forze di intelligence e di sicurezza sono molto ben preparate.

(Pietro Vernizzi)

4.8.16 | Posted in , , , , | Continua »

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