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La vista corta della politica


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Una spenta idea del nostro Paese


Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla

Una gabbia d'acciaio intorno a un corpo piagato, che con la scusa di sorreggerlo in realtà lo tiene prigioniero aggravandone le piaghe: questo oggi è il rapporto in Italia tra la politica e i partiti da un lato, e la compagine sociale dall'altra. Non ci sono cattivi da una parte e buoni dall'altra, no: semplicemente un morto che tiene un vivo che vuole vivere. Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, destinato dalla loro immobilità ad un «presentismo», come lo ha chiamato Roberto Esposito, nel quale ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale. Consumata nel 1991-93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), da allora la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita. Da vent'anni non è più in grado di immaginare alcun futuro per il Paese, di offrirgli una visione.

Il motivo più vero e profondo è principalmente uno: perché la politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti - come del resto in tanta parte del Paese - si è spenta ogni idea d'Italia e della sua storia; di che cosa sia l'Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell'industriosità italiana siano acquisiti dall'estero; consentire che il sistema d'istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d'accatto.

Dobbiamo ricominciare dall'Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l'Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L'unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il Pil o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un'idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa.

Se vuole avere un futuro, l'Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L'alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino.




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Pubblicato da Lucrezia Pagano il giorno 16.10.12. per la sezione . Puoi essere aggiornato sui post, i commenti degli utenti e le risposte utilizzando il servizio di RSS 2.0. Scrivi un commento e partecipa anche tu alla discussione su questo tema.

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