Il diritto di Londra di uscire, e il dovere dell’Ue di evitare la fuga generalizzata
Di tutte le ragioni della Brexit, ossia il voto sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, un dato è certo: il valore della democrazia. Ignorare il risultato referendario non sarà affatto possibile. Quando i cittadini sono chiamati alle urne per esprimere un voto libero e democratico, la loro volontà va sempre rispettata. Anche quando l’esito non corrisponde a quanto auspicato.
E’ da questa considerazione che dobbiamo partire se vogliamo tracciare un bilancio sullo spoglio britannico e delineare le prospettive future dell’Europa. Tre sostanzialmente i problemi all’origine. Le implicazioni politiche del voto e la responsabilità dei leader britannici. I rapporti della Gran Bretagna con l’Unione europea e con gli Stati membri, e quindi anche le conseguenze economiche e sugli accordi da definire. Infine, la determinazione e il necessario cambio di passo di Bruxelles.
Un dato è evidente: non si è trattato di un voto di pancia, di una reazione populista o di antipolitica. Gli elettori hanno preso sul serio il quesito referendario, sono andati a votare in massa (l'affluenza alle urne è stata del 72,2% degli aventi diritto) ed hanno espresso la loro opinione in modo chiaro ed inequivocabile. Il Leave ha prevalso con il 51,9% dei voti, forte del voto dei più anziani e delle periferie più povere e deindustrializzate. Suggestiva anche la ripartizione geografica del voto: ad esprimersi per l’uscita il Galles e il resto d'Inghilterra. Mentre Scozia, Irlanda e Londra hanno votato largamente per il Remain.
Risultati che confermano che la scelta degli elettori è stata soprattutto di natura politica. I più grandi sconfitti di questo referendum sono i giovani, quasi tutti propensi a rimanere nell’Unione europea per ragioni di opportunità, e invece surclassati dal voto di una generazione più adulta, che aveva già conquistato diritti sociali, garanzie e stabilità, e che ha quindi ritenuto che la preoccupazione principale fosse quella di proteggere i propri interessi.
Vani, infatti, sono stati tutti i tentativi fatti per indirizzare il dibattito referendario sui vantaggi e svantaggi economici collegati alla Brexit. Le regioni deindustrializzate, ad esempio, hanno rinunciato all’ombrello europeo perché hanno pensato ai maggiori vantaggi che sarebbero derivati da un tessuto industriale locale slegato dai vincoli e dalla burocrazia dell’Unione. Alla fine si è trattato di una questione politica: se i cittadini temono un futuro meno sicuro a causa dei flussi migratori, o sono vittime della burocrazia bruxellese anche per pratiche più “di routine”, non si può rispondere loro con argomentazioni economiche e ipotetiche perdite di guadagni derivanti dall’uscita. Alla paura non si dovrebbe rispondere con un dossier. Tanto è vero che ne è nata una crisi, al momento per la Gran Bretagna, ma con implicazioni imprevedibili anche per i 27 paesi membri.
Scelte politiche che sono dipese anche dalla mancanza di una strategia efficace da parte delle leadership, del governo e delle opposizioni: tutti i leader dei partiti hanno giocato una partita opaca, più orientata a calcoli di politica interna anziché prediligere scelte di reale interesse per l’economia ed il popolo britannico. Emblematiche sono state le dimissioni a catena che si sono susseguite, come quelle del premier David Cameron, di Boris Johnson e del leader dell’Ukip Nigel Farage, o la sfiducia incassata dal laburista Jeremy Corbyn.
Soprattutto non è esistita una chiara distinzione politica sulle due scelte: Leave e Remain sono risultati entrambi gruppi trasversali, dove il colore politico era difficilmente comprensibile. Conservatori e laburisti si sono divisi tra loro sulla questione e per gli elettori ripercorrere il filo del discorso è diventato ancor più complesso e confusionario.
Pensiamo al fattore Cameron: colui che a questo referendum ha aperto le porte per rafforzare la propria posizione all’interno del partito. Dopo aver ottenuto il secondo mandato da Premier, è tornato a Bruxelles sbattendo i pugni sul tavolo per ottenere un accordo per ridefinire i rapporti tra il Regno Unito e l'Unione europea. Un testo che sarebbe entrato in vigore soltanto a patto di una vittoria del Remain. Ma per il cittadino medio britannico il cambio di casacca del Premier ha creato non poca confusione.
Oltremanica Bruxelles ha sempre affascinato poco. Circostanza che ha portato l’ex sindaco di Londra Boris Johnson e l’europarlamentare Nigel Farage a cavalcare l’ondata di antieuropeismo e a condurre il popolo britannico verso l’uscita. Salvo abbandonare i pro-Leave qualche ora dopo l’esito referendario. Dopo aver raggiunto “la sua ambizione politica” con la Brexit, Farage si è dimesso da leader dell’Ukip (ma conserverà fino alal fine il seggio ben remunerato al Parlamento europeo). Mentre l'ex sindaco di Londra Boris Johnson è caduto vittima di una congiura interna al partito conservatore che di fatto gli ha impedito di correre per la guida dei Tories, e dunque del governo. Lo hanno ricompensato con il Foreign Office, dove sta già dando prova di quanto possa essere controproducente in quel ruolo, attribuitogli poiché la nuova premier Theresa May non poteva correre il rischio di lasciarlo a terra, insoddisfatto, rumoroso e rancoroso.
Con la vittoria del Leave è emerso anche il ruolo marginale del Labour, dal momento che la campagna laburista ha spostato davvero poco. Così come inadeguata ne è risultata la leadership di Corbyn e la conseguente spaccatura interna (il ministro degli Esteri “ombra” esonerato, e le dimissioni di 11 colleghi). Qui non si tratta solo dei vantaggi economici e commerciali che la Gran Bretagna potrebbe perdere con l’uscita dall’Europa: la mancanza di una leadership politica forte e credibile potrebbe mettere a rischio addirittura l’unità del Regno Unito, generando derive indipendentiste come quella subito avanzata dalla Scozia, che ancora riflette su un nuovo referendum per l’uscita dal regno Unito abbinato al “rientro” nell’Ue.
Il risultato è evidentemente quello di aver certificato non solo la debolezza della leadership inglese, ma anche la totale assenza di unità, strategia e decisionismo tra i leader dei 27 paesi Ue. Sorprende la dichiarazione del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, ad una settimana dall’esito del referendum, quando ha affermato che l’uscita del regno Unito dall’Europa “è solo un incidente”. Il che dimostra la mancata percezione delle dimensioni e della serietà di questo evento, nonché delle implicazioni che ne derivano e ne deriveranno.
La Brexit, come ha scritto Thomas Friedman in un editoriale sul New York Times, “non è la fine del mondo, ma potrebbe segnare la fine dell’Unione, se non la usiamo per fondare una nuova Europa”. Lo abbiamo sempre detto, l’Unione non può essere solo economia e finanza. L’Europa deve anche occuparsi di materie sociali, di opportunità e di sicurezza. Purtroppo, invece, come nel caso dell’accordo tra Cameron e Bruxelles, si è pensato di più ad offrire dei risultati vendibili in favore del Remain. Accordi, raggiunti secondo il solito “teatrino” delle regole europee, conclusi con un solenne annuncio politico fatto da primi ministri dei paesi membri, ma che non vengono percepiti come soluzioni che migliorano nei fatti il rapporto cittadino – istituzioni europee. Si pensi ai cambi di casacca e ai passi indietro sul tema dell’immigrazione, o alle provocazioni e alle ripercussioni sulla libera circolazione.
Concretezza e trasparenza, quindi. E’ da qui che l’Europa dovrà ripartire. Iniziando con il dare concretezza all’articolo 50 del trattato di Lisbona quando stabilisce che “il paese dell'UE che decide di recedere, deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo, il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese”; e che “i trattati cessano di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine”.
Tuttavia, come si evince dai due commi, l’articolo 50 dice solo che i negoziati si devono concludere entro due anni, e che questo periodo può essere esteso. Mentre nulla viene detto su quando la notifica dell’intenzione di uscire debba avvenire. Una lacuna che rischia di minare la credibilità stessa del Trattato, il cui articolo sulla clausola di recesso è stato invocato per la prima volta, ma potrebbe costituire un pericoloso precedente per le sorti dell’integrazione europea.
La premier May ha recentemente annunciato che l’art. 50 del Trattato verrà “attivato” a marzo 2017. Si tratta di nove mesi dopo il referendum. E vi sono dubbi che a marzo intervenga solo l’annuncio della notifica ex art. 50 non seguita dall’immediato inizio delle trattative.
La linea dei Ventisette resta chiara: ci si aspetta che il governo faccia la comunicazione della volontà di avviare le pratiche di separazione - atto che solo il governo di Londra può compiere – per evitare periodi di incertezza e anche per dare un messaggio chiaro di forza e di non cedevolezza ad altre forze leavers in giro per l’Europa. Insomma non esistono negoziati per star dentro in maniera “diversa”.
Così come dubito che tra le possibili strategie per costringere la Gran Bretagna ad attivare le pratiche di separazione dall’Unione europea al più presto, si possa ricorrere in estrema ipotesi all’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che prevede la sospensione del diritto di voto di uno Stato membro negli organismi comunitari. La procedura è complessa e garantista, ma in sostanza si prevede che se uno Stato non rispetta i fondamenti di democrazia sui quali si basa l’Unione può essere così punito.
Urge un messaggio chiaro ed inequivocabile: le istituzioni che si riconoscono nel Trattato di Lisbona hanno davanti a sé una scelta importante, che è quella di spiegare al governo di Londra che una volta vinto il Leave questa decisione si deve tradurre in una notifica e in un negoziato.
L’accoglienza dei leader Ue e degli Stati membri durante la prima apparizione del premier, la settimana scorso al Consiglio europeo, è stata fredda se non ostile. Mi ha colpito che il Consiglio abbia dedicato pochissimo tempo e attenzione scarsa alla relazione che la premier May ha fatto sulla situazione attuale e le prospettive di inizio dei negoziati UK – Ue. Ciò che è invece emerso da un lato è la durezza con cui il negoziato si sta preparando – affidato alla regia di Michel Barnier, già ministro degli esteri e Commissario francese, che ha dovuto smentire la voce circolata di negoziati da condurre in francese!
D’altro canto è apparsa quasi surreale la dichiarazione di ottimismo della signora May e al limite del ridicolo la frase “l’Ue è ancora la migliore società del mondo” pronunciata dal presidente del Consiglio Ue, il polacco Donald Tusk. Forse non del tutto consapevole del ruolo guida del suo paese rispetto al cosiddetto “gruppo di Visegrad” che rifiuta sempre di più i cardini del processo di integrazione.
Le implicazioni per Londra e per i Ventisette potrebbero essere catastrofiche, e per Bruxelles; ad esempio, abbiamo già visto come le conseguenze della Brexit abbiano già creato gravi turbolenze dei mercati finanziari e quanto il valore della sterlina sia diminuito: grande problema, questo, per un paese che compra materie prime e prodotti manifatturieri.
Per la Gran Bretagna gli effetti di medio-lungo periodo dovranno essere valutati e ponderati. Theresa May ha sì fatto presente che in caso di vittoria a Downing Street il tema dell’immigrazione sarà affrontato contestualmente alla fine della libera circolazione. Una dichiarazione ad effetto, ma che non può non tener conto del fatto che la libera circolazione delle persone rientra tra le quattro libertà fondamentali su cui si fonda l’Europa. E che se anche una sola di queste libertà non venisse rispettata il Regno Unito non potrebbe ottenere di rimanere nel mercato interno. Il modello norvegese – invocato dai Brits - è molto chiaro: la partnership Ue - Norvegia si basa sul rispetto delle libertà fondamentali tra cui la liberta circolazione delle persone, tanto che Oslo è anche membro di Schengen. Si tratta di termini negoziali che hanno implicazioni politiche e socio economiche profondissime. Ecco perché i negoziatori britannici devono valutare prima del negoziato il reale impatto che ne deriverebbe.
Alcuni analisti hanno stabilito che l’effetto Brexit potrebbe costare all’Europa fino a mezzo punto di Pil. Il governatore della banca d’Italia ha parlato ad inizio luglio di 0,25 – 0,26. Questo si vedrà tra qualche mese, una volta metabolizzati il crollo dei mercati ed il conseguente panico finanziario che si sono venuti a generare nelle 24 ore successive al referendum. Certo la domanda resta: vi sarà un effetto domino in direzione di altri paesi? Come ad esempio il leader euroscettico olandese Geert Wilders ha proposto di fare nel suo paese proponendo una “Nexit”. O come potrebbe accadere in Austria, se nella nuova elezione presidenziale risultasse vincitore il candidato euroscettico del FPO Norbert Hofer. E, soprattutto, accanto all’effetto domino ci sarà un irrigidimento di gruppi di paesi volto a rivendicare specifiche pretese settoriali o regionali con una sorta di Europa à la carte? Come ad esempio vogliono fare i paesi di Visegrad sostanzialmente guidati dalla Polonia, ma tra cui figura anche la Slovacchia che dal 1 luglio ha assunto la presidenza dell’unione europea. Ancora una volta l’Europa rischia di colorarsi a macchia di leopardo, un’altra realtà di Brexit su cui dobbiamo lavorare.
Negli scorsi giorni, il presidente dell’associazione bancaria britannica Browne ha pubblicamente ammesso che le grandi banche britanniche si preparano a trasferirsi fuori dal Regno Unito nel 2017, per timore dell’effetto Brexit che sarà chiaro ed evidente solo quando i negoziati entreranno nel vivo.
Oggi le banche britanniche grazie al “diritto di passaporto” possono offrire servizi finanziari a persone nella intera Ue senza alcun ostacolo. E’ evidente che la possibilità perduta di tale prerogativa, insieme alla reintroduzione delle barriere doganali per l’uscita dal mercato comune Ue, provocherebbe danni gravissimi. Una stima della società di consulenza “Oliver Nyman”, quotata da Bloomberg, indica solo per effetto della perdita del “diritto di passaporto una riduzione di ricavi fino a 40 miliardi di sterline, e un esubero di 70 mila lavoratori del settore bancario”.
Rivelazioni non confermate pubblicate da autorevole stampa britannica parlano di una contromossa allo studio di Downing Street. Il governo britannico, una volta “libero” dal vincolo Ue, dimezzerebbe la Corporation Tax dal 20% al 10%, per indurre finanza e corporate a restare “malgrado Brexit” e per esercitare pressioni su Bruxelles a cui evidentemente questo massiccio taglio fiscale appare come lesivo della sana e leale concorrenza.
Una Corporate Tax al 10%, inferiore persino a quella irlandese del 12,5%, contro cui l’Ue sta premendo, sarebbe un terzo dell’aliquota italiana, tedesca o francese.
La mia impressione è che se tale idea venisse davvero attuata, senza limitarsi all’uso di essa come “minaccia negoziale”, l’Europa dovrebbe reagire con più, non con meno durezza. L’Europa à la carte sarebbe un pessimo esempio per altri paesi che hanno già pronta la loro lista della spesa.
Se vogliamo essere europei dobbiamo esserlo non solo a parole, ma anche sancendo una concreta disponibilità a maggiori passi verso l’integrazione e l’unità politica. Ho letto, ad esempio, che dalla Commissione europea sono filtrati suggerimenti per rafforzare le politiche di sicurezza e di difesa comuni, e per affrontare finalmente nei paesi di origine dell’immigrazione il tema degli aiuti allo sviluppo. Ma sarà questa una realtà? O saranno ancora le mille ripetute affermazioni solenni dei vertici Ue cui oramai siamo abituati? E’ chiaro anche qui che gli effetti del non decidere e del non avere una posizione politica forte su questi temi, certamente favorirà coloro che come forza centrifuga stanno spingendo in Europa per moltiplicare l’effetto Brexit.
Da convinto europeista credo sia sbagliato ripetere il mantra “più Europa”. Il voto britannico ci dice che lo slogan dovrebbe essere una “diversa Europa”. Un’Europa migliore che la smetta di fare ciò che non serve alla vita dei cittadini e di attivarsi invece per ciò che è drammaticamente importante dal punto di vista politico, economico e sociale, come ad esempio allentare il vincolo con più flessibilità per gli investimenti al fine di creare più sviluppo e occupazione, e non mettere in discussione pilastri dell’unione bancaria che includono garanzie per i risparmiatori.
Io credo che ogni paese debba ridurre la spesa pubblica e non finanziare in deficit la crescita. Ma in una situazione ancora grave con bassa crescita e stagnazione, minacciare la bocciatura della manovra per dissensi sullo 0,1 del Pil sarebbe sbagliato per l’Ue.
Più soluzioni, meno burocrazia e soprattutto meno freni alla crescita e alle produzioni nazionali. Penso ad un episodio accaduto proprio qualche mese fa e che potrebbe accelerare verso l’euroscetticismo anche la voce dell’Italia, tra i pochi paesi dove ancora forse si sostiene l’Ue. Mi riferisco all’episodio del formaggio senza latte. Come sappiamo l’Italia (a differenza di altri Paesi) ha una legge severa che impone di fare tutti i formaggi usando il latte vero, e proibisce l’uso dei succedanei. Ma, notizia di qualche mese fa, la Commissione europea ci ha inviato una diffida, per imporre “la fine del divieto di detenzione e utilizzo di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito nella fabbricazione dei prodotti lattiero-caseari”. In parole povere Bruxelles decide che per adeguarci a quanto in uso negli altri Paesi europei dobbiamo permettere anche noi la produzione del formaggio “zero latte”. Ecco, non è così che si aumenta il prestigio e la legittimità delle istituzioni europee. È ovvio che la enorme filiera della produzione alimentare dei produttori caseari italiani comincerà a chiedersi se questa Ue non sia un danno permanente anziché un’occasione come abbiamo raccontato finora.
E’ in un ambito assai più ampio, relativo alla politica estera, è ormai chiara a tutti l’assurdità delle sanzioni economiche contro la Russia, che paralizzano certo solo gli europei – e moltissimo le aziende italiane – e non certo gli USA che le hanno richieste e promosse a noi alleati.
In un momento in cui la priorità è sconfiggere insieme il terrorismo e non l’Ucraina, e l’impegno della Russia è essenziale e riconosciuto, bene ha fatto il nostro governo a far cancellare dall’ultima risoluzione del Consiglio europeo persino il riferimento indiretto a “nuove sanzioni” contro Mosca, laddove si dovrebbero rapidamente revocare quelle esistenti.
Insomma, se in un momento così critico, dopo la Brexit, vengono in mente queste azioni, allora vuol dire che non si è capito nulla di quali possano essere le reazioni dei popoli se vengono provocati nella loro identità, storia e cultura. E’ ora che Bruxelles capisca che queste decisioni portano acqua solo a chi vuole moltiplicare le Brexit in altri capitali europee.
Agire vuol dire consolidare una politica europea che guardi alle sfide di medio e lungo termine. Non possiamo ad esempio continuare a nicchiare sull’immigrazione, perché se non la governiamo il fenomeno ci travolgerà. Ed è un altro elemento straordinario che non possiamo confondere con il populismo. Agire vuol dire rispondere con più sicurezza alla paura di chi abita nei quartieri poveri delle città. Agire vuol dire che non si può balbettare se la Scozia chiede un incontro con le istituzioni europee per negoziare il distaccamento da Londra e aderire all’Europa. Agire vuol dire svegliarsi sulle prospettive strategiche ad Est oltre che a Sud.
Il popolo inglese ha detto di no a un progetto di accordo sbagliato, un progetto deciso sopra le loro teste. Un progetto che il popolo (e non solo quello inglese) ha percepito infine come proprio nemico. Ed è precisamente questo il punto: una “diversa Europa” vuol dire un progetto amico e non nemico dei popoli. Qui non è in gioco solo il diritto della Gran Bretagna di uscire dall’Unione, ma anche il dovere di Bruxelles di evitare una fuga generalizzata dall’Unione.